giovedì 16 giugno 2016

Caso Orlandi: le notizie sconosciute ai più


  Il caso Orlandi


    E’ dal 2002 che ricevo informazioni confidenziali sulla sparizione di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi. Su quest’ultima le notizie sono più particolareggiate e potenzialmente utili ai fini della sua rintracciabilità.  Su Mirella le notizie in principio furono abbastanza circostanziate, ma poi si esaurirono, con la giustificazione che sul soggetto “non vi era più nulla da dire”.
Ho verificato le informazioni dapprima a Roma, poi in Turchia, quindi in Marocco dove ho effettuato dieci sopralluoghi.
Il mio informatore, un agente straniero, mi ha sempre parlato della pericolosità della ricerca delle ragazze, che affermava essere vive e, nei primi anni del sequestro, tenute all’interno di un gruppo di matrice politico-criminale. Io tuttavia non mi sono lasciata scoraggiare. La pericolosità fu ribadita allorché mi fu detto che, passando di mano in mano, erano state inglobate e integrate all’interno di una comunità avente soprattutto connotazione religiosa (islamica). Ho supposto allora che il pericolo consistesse nell’illegalità dell’occultamento da parte della confraternita. Solo negli ultimi tempi ho capito che consisteva e consiste tuttora nella Jihad, celata dietro l’attività di predicazione religiosa in varie moschee ( alcune delle quali indicatemi con precisione) e altre attività affini, come quelle caritatevoli, svolte in un peregrinare continuo in varie località del Marocco. Nella casa di Emanuela Orlandi, mi è stato detto, esistono solo “libri e politica” – parole testuali. In altri termini, adesione all’attività terroristica.
Con il mio libro “Emanuela nelle braccia dell’Islam?”, scritto in una decina di giorni e pubblicato nel 2011, ho voluto subito rendere noti alcuni risultati per non lasciarli invecchiare nel cassetto. I nomi di persone che vi compaiono, a volte indicati con abbreviazioni, in seguito sono stati esplicitati in una Memoria, consegnata ai magistrati romani incaricati dell’indagine sulla sparizione delle ragazze. Questo avveniva  qualche mese prima della chiusura della stessa. I nomi, appartenendo a persone della Chiesa, forse non sono stati utilizzati dai magistrati per gli impedimenti che si frappongono alla convocazione dei religiosi che siano cittadini vaticani. Ho anche indicato in forma generica, nel libro, i luoghi degli incontri clandestini, quindi meglio specificati nella Memoria.
Negli ultimi anni ho ricevuto altre informazioni sul caso, ma non le ho pubblicate né condivise con alcuno, sperando di poter giungere da sola alla meta. Le verifiche  cui adesso accennerò, anche se non consistono nella prova provata che tutti attendiamo, sono da me giudicate attendibili  sulla base del numero, della varietà e della loro coerenza.
Ed ecco le informazioni più interessanti.
In seguito alle manifestazioni organizzate da Pietro Orlandi, che hanno avuto grande risonanza grazie ai media, si sono mossi dal Vaticano in due riprese, nella primavera e nell’autunno del 2013, un paio di personaggi. Al termine delle visite, la Orlandi si è ammalata gravemente e ha protestato dicendo di essere stata avvelenata. Si è ripresa nel 2014, andando a curarsi in una località della quale ho il nome.
Attenzione: bisogna vedere cosa l’informatore e gli stessi membri del gruppo intendano per ‘Vaticano’. Tali emissari d’altronde hanno sempre effettuato visite periodiche presso il gruppo, anche per consegnare danaro come prezzo del mantenimento “coperto” della persona  in questione (la Orlandi), che tuttavia è, come ho detto, profondamente mutata nell’animo e nella mente, nell’abito e nel comportamento.
Ed ora ricapitoliamo, in estrema sintesi, i fatti precedenti.
Importanti personalità mi hanno dichiarato  che il “caso Orlandi” è nato nell’ambito del fenomeno criminale dell’abuso sessuale su minori. I fatti e le verifiche li ho raccontati, come ho detto, nel mio libro.  
Sulla sparizione attribuita al giro di incontri sessuali tra ecclesiastici e giovanissimi ho intervistato il Cardinale Silvio Oddi; Mons. Simeone Duca dell’ Archivio di Stato Vaticano; Mons. Giuseppe Azelio  Manzetti, Cappellano Capo del Gran Piorato di Roma SMOM (che ha parlato di un continuo e persistente ricatto a papa Wojtyla, sempre perciò preoccupato per un’eventuale rivelazione della scabrosa faccenda); Sua Eccellenza Giovanni D’Ercole (dichiarazione confidenziale non pubblicata per intero nel libro); Mons. Hilarion Capucci, già Arcivescovo di Gerusalemme; Ali Rashid, dei Servizi palestinesi.
Tra le figure poco conosciute coinvolte nel traffico, ho indicato due suore residenti nell’Istituto di via Nomentana che si trova di fronte a quella che fu la casa di Mirella Gregori e a pochi passi da quella del gendarme vaticano Raul Bonarelli, amico della Gregori e di una delle due suore. Ho inoltre verificato il ruolo del Reverendo Angelo Caravella, organizzatore storico dei fatti criminali, allontanato dalla Chiesa subito dopo la sparizione dell’Orlandi.
In Turchia ho trovato la piena collaborazione dei Padri Cappuccini ivi residenti. Le due ragazze, prigioniere delle bande politico-mafiose della famigerata città di Malatya, patria di Oral Celik e Ali Agca (vedi le sue dichiarazioni sull’esistenza in vita della Orlandi, secondo notizie portate in carcere probabilmente da suo fratello Adnan), divennero ostaggi per ricattare il Vaticano nelle trattative mediorientali. In quei lontani anni Ottanta la tensione era estrema per la questione palestinese e  la cittadina vaticana costituì un’arma di pressione sulla Santa Sede perché si schierasse a favore dei Palestinesi, cosa che di fatto avvenne. In  seguito le ragazze furono trasferite altrove.
Sulla presenza delle ragazze in Turchia hanno fatto dichiarazioni:  Monsignor Ruggero Franceschini, allora Presidente della Conferenza episcopale turca; Emilio Levante, che come Viceconsole onorario d’Italia fu testimone delle trattative per l’accordo tra Italia e intermediari locali per la liberazione delle due ragazze (in mio possesso il documento originale, già depositato presso il Viceconsolato d’Italia di Mersin, della dichiarazione giurata dell’intermediario, varie foto, registrazioni audio e video); Padre Adriano Franchini, Direttore della Caritas, chiamato a fare da intermediario a Malatya (é riuscito a salvarsi da un attentato mentre celebrava la Messa).
Una tappa delle ragazze, consegnate a un altro gruppo che le portò fuori dalla Turchia, fu l’Algeria, dove vi fu una lunga sosta.  Infine il passaggio nel vicino Marocco. La Orlandi ha cambiato molti nomi. Quello di Fatima è forse rimasto, mutando quelli del padre e quindi della genealogia. Ne possiedo uno per intero.
So quali moschee Emanuela ha frequentato o frequenta. So a quale confraternita appartiene. So a quali attività si dedica (in particolare quella caritatevole) e so che suona e insegna il flauto (ghaita). Conosco le aree territoriali e i luoghi specifici di permanenza prolungata. So in quali città e paesi trasmigra per incarichi o per spostamenti col suo gruppo. So qual è l’attuale autorità religiosa di protezione.
Conosco il tipo di lavoro di suo marito e il nome della Compagnia che lo ha impiegato.
In Marocco ho individuato la prima casa-rifugio delle ragazze e ho incontrato la donna che le custodì per due anni dando loro i nomi di due sue figlie, residenti altrove.
Sono tuttavia ormai consapevole di non poter più condurre una caccia che sia solitaria e che programmi soggiorni brevi sul territorio.

 

mercoledì 15 giugno 2016

I figli dello Zar Nicola II scampati alla fucilazione

                                         I figli dello Zar Nicola II  scampati alla fucilazione
      Il 17 luglio 1918, ad Ekaterinburg, per ordine di Lenin, i soldati dell’Armata Rossa fucilarono, secondo quanto affermano gli storici, lo zar Nicola II e la sua intera famiglia. Nel 1991, riportati alla luce degli scheletri, iniziò la loro identificazione. Grazie a studi genetici comparativi, è stato possibile riconoscere i resti dello Zar, della Zarina e di tre dei loro cinque figli.  Le ossa rinvenute nel 1991 in una fossa comune ad Ekaterinburg appartengono realmente all’ultimo zar di Russia Nikolai II” spiega l’equipe russo-americana.” I test del DNA condotti da studiosi nel corso di 3 mesi confermano la tesi. Non ha ancora trovato spiegazione, però, il nodo intorno alla figlia di Nicola II Anastasia, per quanto riguarda la quale si sostiene l’ipotesi che possa essere rimasta in vita. L’équipe britannica ha annunciato nel 1993 che le sue ossa non figurano tra quelle dei 9 membri della famiglia reale fucilati nel 1918.
      Il 31 luglio 1995 un Interfax da Mosca comunicava:“Le ossa riesumate risultano essere quelle della famiglia reale russa. Gli studiosi russi non hanno dubbi sul fatto che gli scheletri riesumati vicino ad Ekaterinburg siano quelli di 5 componenti della famiglia imperiale russa. Le ossa sono quelle dell’ultimo zar di Russia Nikolaĭ II, di sua moglie Aleksandra e delle loro figlie Olga, Tatiana e Anastasia, uccisi ad Ekaterinburg nel 1918. Questo ha affermato Vladimir Solobǎov, medico legale presso “Glavna Procuratura”- Procuratura Generale - , che si occupa della causa dello studio dell’uccisione dei Romanof. Insieme ai Romanof sono stati uccisi il medico di famiglia, il cuoco, un lacchè e una cameriera. Mancano gli scheletri di due figli di Nikolai II, Alekseǐ e Maria”.
    Maria o Anastasia? Anche se rimane ancora il dubbio circa l’identità della figlia scampata al massacro,  un’inchiesta giornalistica condotta in Bulgaria e basata su numerose prove, comprese le testimonianze  di  persone che conobbero i protagonisti della vicenda e fotografie dell’epoca, avrebbe accertato che Aleksej e Anastasia (o Maria?) scamparono alla morte in quanto sostituiti, prima dello sterminio della loro famiglia, da due  sosia. Anastasia era nata nel 1901, Alekseĭ nel 1904. In base ai dati dei registri comunali e  parrocchiali e ai ricordi degli abitanti anziani del villaggio bulgaro di Gabarevo, Anastasia (o Maria?)  e Aleksej avrebbero vissuto e quindi concluso la loro vita in questa località della regione di Kazanlăk.
    Nel 1922 o nel 1924 era giunto in Bulgaria, forse provenendo  dalla Turchia, indossando cappotti militari delle Guardie bianche, un gruppo di persone tra le quali il sedicente dottor Piotr Aleksandrovich Alekseev, più anziano degli altri; una giovane donna che si faceva chiamare Eleonora Albertova Kriuger e un giovane, Gheorghiĭ  Pavlovich Zhudin. Nella popolazione locale suscitò una strana impressione la loro convivenza e il fatto che sembrassero nascondere segreti relativi al loro passato, al periodo – cioè – precedente il loro arrivo nel villaggio. I due giovani avevano aspetto,comportamento,cultura,abitudini che li poneva molto al di sopra delle comuni classi sociali. Sbalorditive alcune confidenze sfuggite dalle loro labbra in alcune occasioni.
    I racconti della gente locale sono suffragati anche dalla testimonianza di Petăr Hristov Petrov in una lettera pubblicata nel luglio 1995 sul giornale “Dnes” (lett. “Oggi”). Questi narra che  nel 1953, sedicenne, studente presso il ginnasio di Kavarna, era ricoverato nel reparto chirurgia  dell’ospedale regionale di Balchik (costa nord- orientale della Bulgaria). Nella stanza d’ospedale si trovava anche un malato anziano – Zamjatnik - una guardia bianca russa che una sera,  chiamando a sé il giovane Petrov, gli raccontò una storia, rivelando come quella fosse la prima volta che svelava un segreto a qualcuno, convinto che non sarebbe uscito vivo dall’ospedale. Impiegato nello squadrone della cavalleria addetta alla sicurezza della famiglia dello Zar, fu convocato nel 1918 dallo Zar in persona e  incaricato di fuggire con due dei suoi figli. Travestiti,  raggiunsero  Odessa (con Zamjatnik si trovava anche la propria sorella minore che, indossando cinture in cui nascondeva soldi e oro, preferì scendere a Belgrado). Tempo dopo, nel tentativo di raggiungere in Serbia la sorella, Zamjatnik e i principi  transitarono in Bulgaria, dove furono costretti a restare non riuscendo a varcare la frontiera con la Serbia. A Sofia, dove Zamjatnik cercò aiuto medico per il principe, ne incontrò uno che gli propose di andare a Kazanlăk e di restarvi.
    Eleonora è morta  il 20 luglio 1954, mentre Gheorghiĭ risulta morto di tubercolosi (ma forse di emofilia) nel dicembre 1930. Entrambi sono stati seppelliti nel vecchio cimitero di Gabarevo, attualmente trasformato in parco.

La vera sorte dei figli dello Zar

I due figli di Nicola II scampati alla fucilazione da bambini e da adulti:
 Anastasia (o Maria?) e Aleksej. 
 
Titolo del libro:  Romanovi. La fine di un mistero
Autore:                   Donka Ĭotova (giornalista della città di Stara Zagora).
Casa Editrice:        Novata tsivilizatsija”[lett. La Nuova Civilizzazione]). Il volume in questione è il ventesimo della collana “Biblioteca Anastasija”.

Prefazione (pp. 5-6) a firma di Atanas Panchev (Membro della “Ruskata Rodova Akademija; Laureato in giurisprudenza; Editore del giornale “Rodovo imenie”; Direttore della Casa Editrice “Novata tsivilizatsija”[lett. La Nuova Civilizzazione]). Nella prefazione l’editore ringrazia l’autrice Donka Ĭotova per avere scelto la propria casa editrice per la pubblicazione della seconda edizione del libro “Romanovi. La fine di un mistero” (l’enorme successo di pubblico della prima edizione ha reso presto necessaria la pubblicazione di una seconda edizione). Il libro, nelle parole dell’editore, “(…) svela il collegamento tra l’ultima famiglia di zar della Russia e la Bulgaria. (…) La famiglia Romanovi ha giocato un ruolo molto importante anche per la liberazione della Bulgaria, guidando guerre contro l’impero ottomano, a favore della liberazione e della prosperità dei popoli balcani”.
Donka  Ĭotova segue le sorti degli ultimi eredi dello zar russo, le loro vicissitudini nel corso delle varie emigrazioni e la fine della loro esistenza terrena in Bulgaria. Da autore e giornalista straordinaria quale è D. Ĭotova esamina e aggiunge alla sua ricostruzione nuovi fatti con relative prove. Tale percorso di  ricerca ne fa uno dei migliori autori del nostro tempo”.



I capitolo (pp. 7 – 28).
Da Ekaterimburgo il mistero potrebbe essere svelato nell’area di Kazanlăk. Le due sepolture a Gabarevo sono regali?

            Nell’articolo così intitolato apparso nel numero 1/1993 a Kazanlăk nel “Седмични вести” (Sedmichni vesti), a firma dell’autore Dimităr Njagolov è stata avanzata, per la prima volta, l’ipotesi che due dei bambini dei Romanovi, l’ultima famiglia di zar russi, abbiano concluso la loro esistenza nel villaggio di Gabarevo, nella regione di Kazanlăk. D. Ĭotova riporta tra virgolette (qui tradotto e trascritto in corsivo) il testo stesso delle  riflessioni di D. Njagolov, che hanno alimentato l’interesse per la questione:
«Il 17 luglio 1918 nell’Ekaterimburg per ordine di Lenin i soldati dell’armata rossa fucilano lo zar Nicola II e la sua intera famiglia. Nel 1991, riportati alla luce i loro scheletri, inizia la loro identificazione. Sulla base dei dati della rivista francese “Express”, grazie a studi genetici comparativi è stato possibile riconoscere i resti dello zar, della zarina e di tre delle loro figlie. Non sono stati trovati, invece, gli scheletri di altri due figli della coppia reale: Alekseĭ e Anastasija. Anastasia è nata nel 1901, Alekseĭ nel 1904. Confrontando i dati di nascita, i ricordi degli abitanti anziani del villaggio di Gabarevo, così come i dati dei registri comunali e  parrocchiali, propongo ai lettori la possibilità che Anastasia e Alekseĭ abbiano concluso la loro vita in questo villaggio bulgaro, nella regione di Kazanlăk. Nel 1924 (o – come precisa D. Ĭotova con una nota al testo riportato di Njagolov – piuttosto nel 1922) giungono nel villaggio di Gabarevo, si pensa dalla Turchia,  tre guardie bianche (belogvardeĭtsi) con cappotti militari: il dottor Piotr Aleksandrovich Alekseev, nato il 15 gennaio 1884, che è stato poi nominato medico condotto del villaggio; una giovane donna di nome Eleonora Albertova Kriuger, di 24 anni, da Pietroburgo e un giovane, noto come Gheorghiĭ (George) Pavlovich Zhudin. Secondo il registro parrocchiale dei matrimoni di Gabarevo il 26 settembre 1924 il dott. Piotr Aleksandrovich Alekseev – di 40 anni, nato nella città di Smolensk, in Russia - e Eleonora Albertova, di 24 anni, vedova, nata a Pietroburgo, in Russia, si sono uniti in matrimonio. Come è scritto, invece, nel registro dei defunti, Eleonora dott. Petyr Aleksieva (il nome del dottore è in questo caso bulgarizzato) è morta a 55 anni di età, il 20 luglio 1954, mentre Gheorghiĭ (George) Pavlovich Zhudin risulta morto di tubercolosi  a 30 anni di età, nel dicembre 1930. Entrambi sono stati seppelliti nel vecchio cimitero di Gabarevo, attualmente trasformato in parco.
Gli anziani e le persone di mezz’età di Gabarevo ricordano il dott. Petăr Aleksiev e la sua compagna, che chiamano più familiarmente signora Nora. Nella popolazione locale ha sempre suscitato una strana impressione la loro convivenza e il fatto che sembrassero nascondere segreti relativi al loro passato, al periodo – cioè – precedente il loro arrivo nel villaggio bulgaro.
Il dott. Aleksiev viene sempre descritto dagli abitanti di Gabarevo come persona laboriosa,  come medico dedito alla cura dei propri pazienti e, al tempo stesso, come uomo socievole, a cui piaceva intrattenersi con le compagnie (occasioni in cui si presentava da solo, senza la signora Nora) e suonare romanze alla chitarra. Morì all’età di 80 anni, il 20 settembre 1964, in solitudine (lontano dalla propria patria – la Russia - e dalla propria casa), non lasciando altro che il piacevole ricordo di sè nella popolazione di Gabarevo. Quella con la signora Nora non è mai stata una convivenza “da coppia sposata”. Sebbene ottimo medico e persona intelligente, la personalità della signora Nora è sempre stata percepita dagli abitanti di Gabarevo, come superiore; la donna è infatti descritta “di stirpe – origine regale”. La signora Nora è una donna alta, bella, con moderna acconciatura, sempre elegantemente abbigliata, che suscita negli abitanti del villaggio che la ospita un atteggiamento di profondo rispetto: a lei e al suo cagnolino (di una razza mai vista prima dagli abitanti di  Gabarevo), per esempio, viene ceduto per strada il passo). La signora Nora possiede una grande e profonda ferita sul collo (da arma da fuoco?) e parla con voce nasale. Profondamente erudita – parla francese, tedesco, inglese e conosce la matematica, la storia e la geografia – fornisce lezioni gratuite  agli studenti del villaggio, che lo desiderino. Suona il piano e dipinge (con colori ad olio e con acquarelli). Alcuni dei quadri realizzati dalla signora sono conservati nelle case delle sue amiche a Gabarevo. Insegnava, inoltre, alle fanciulle del villaggio alcune attività domestiche e decorative (per esempio, la coltivazione di fiori e la cura dei giardini). Sulla base dei racconti forniti dai suoi ex allievi, la signora Nora fumava molto  e faceva uso di morfina (oppio). Spesso cadeva in uno stato confusionale, si irrigidiva con tremori alle braccia fino a quando non prendeva una piccola pillola, simile a sapone fatto in casa. Appena dopo aver preso la pillola tornava a tranquillizzasi e appariva di nuovo felice, le sue braccia cessavano di tremare e la lezione riprendeva normalmente.
Nel settembre 1944, quando giungono in Bulgaria le truppe sovietiche, la signora Nora cade nel panico. Durante il passaggio dei militari nel villaggio ella si nasconde “nel profondo della terra”. Il piano dell’ambulatorio in cui vive con il dottore rimane chiuso per giorni; lei non incontra nessuno e persino il dottore non si reca da lei ma dorme nel proprio studio. Le finestre sono oscurate attraverso tende pesanti.
Ma ciò che risulta ancora più strano è il suo atteggiamento nei riguardi del dottore Aleksiev: un rapporto più proprio di una padrona nei confronti di un servitore, piuttosto che di una moglie nei confronti di un marito. Nessuno mai ricorda che essi siano vissuti come una coppia e come una famiglia. La donna sembra trattarlo con disprezzo. Gli allievi lo sorprendevano, talvolta, a mangiare sui gradini della scala del proprio ambulatorio e spesso percepivano le grida di lei che urlava “canaglia!”. Il dottor Aleksiev, al contrario, si comportava con la signora Nora sempre con deferenza, quasi la temesse (un timore proprio di un sottoposto). Dopo la morte della signora Nora lui si recava presso la sua tomba.
Interessante risulta il seguente episodio: anni dopo il decesso della signora Nora, inavvertitamente, uno dei presenti rompe la chitarra a sette corde del dottore Aleksiev. Fino ad allora il medico era sempre apparso sereno e suonava piacevoli romanze russe. Mentre la compagnia di amici continuava a divertirsi dopo la rottura della chitarra, il dottor Aleksiev scompare. Attendono invano il suo ritorno per due ore, dopodichè iniziano a cercarlo. Lo trovano, alla fine, seduto nei pressi della tomba della signora Nora, pensieroso e triste, intento ad accennare, pizzicando appena le corde della chitarra rotta, tristi accordi. Il segreto sulla vera natura del loro rapporto, collegata alle loro diverse origini e con la vita condotta prima del loro arrivo a Gabarevo è seppellito con loro. Sebbene il vecchio cimitero in cui sono stati seppelliti la signora Nora e George sia stato oggi trasformato in parco e sebbene manchino i monumenti funerari relativi a tali deposizioni gli abitanti di Gabarevo  ricordano precisamente dove si trovassero le loro sepolture. E’ possibile che lì riposino i resti di Anastasia e Alekseĭ, i due figli dello zar Nicola II e che il mistero di Ekaterimburg trovi una sua definitiva soluzione sotto i due pini nel parco del villaggio di Gabarevo, nel territorio di Kazanlăk ».

    Dimităr Njagolov (nato nel 1941), autore del materiale appena riportato e apparso nell’articolo precedentemente citato è il figlio (oltre che noto neurologo di Kazanlăk è scrittore e autore di alcuni libri di racconti) del vecchio sacerdote di Gabarevo, in servizio presso la chiesa del villaggio a partire dal 1935. Il sacerdote seppellì sia Nora che il dottor Aleksiev.

    D. Ĭotova nota che il dott. Njagolov conosce e può ricostruire molti dettagli della vita dei personaggi in questione; dal momento, però, che un articolo di giornale non può, necessariamente, contenere tutti i particolari della vicenda, sente la necessità di approfondire la strada tracciata da Njagolov sottolineando che Njagolov abbia dimenticato di ricordare un argomento molto importante a sostegno dell’ipotesi da lui stesso sostenuta (quella, cioè, dell’identificazione di Nora e George con Anastasia e Alekseĭ ). Si tratta del racconto della madre dello stesso Njagolov, che D. Ĭotova riporta (p. 11). Un’amica della madre di Njagolov – di origine austriaca, di nome Charlotte, sposata con un avvocato – visse a Gabarevo e divenne amica della signora Nora. Separatasi dal marito Charlotte prende i voti e si chiude in un monastero presso Veliko Tărnovo. Dopo un certo periodo di tempo, trasferitasi  a Kalofer (di nuovo vicino a Gabarevo), Charlotte e la madre del dottor Njagolov possono tornare a frequentarsi a Gabarevo. In occasione di tali incontri, Charlotte era solita affermare che Nora serbasse in sé un segreto. Raccontava, infatti, che una volta chiese a una sua amica di Kalofer, conservatrice presso la casa –museo “Hristo Botev”, impegnata  in una missione di lavoro in Unione Sovietica (probabilmente tra gli anni ’50 e gli anni ’60 del XX secolo) di vedere alcune fotografie della famiglia Romanovi. Sostenne che dalle fotografie era evidente che i due figli di Nicola II fossero in Bulgaria.

D. Ĭotova riporta che i racconti degli abitanti di Gabarevo  riferiscono del carattere riservato della signora Nora (che avvicinava quasi esclusivamente soltanto i bambini del villaggio). Di fronte ad essi la signora Nora ricordava  la sua “ stanza regale”, il fatto che “facesse il bagno in una vasca d’oro” e che servitori le tagliassero le unghie”. Nora (così come il dottor Aleksiev), in generale, non parlava mai chiaramente del suo passato e, quando lo faceva, forniva volontariamente dati discordanti. D. Ĭotova si chiede se – in virtù dell’amicizia e del fatto che entrambe fossero straniere -  Nora non avesse rivelato qualcosa del suo passato alla viennese Charlotte.


            L’autrice riporta, inoltre, un passo di una lettera scritta da Nora ad una sua amica nel 1951 (nel libro non viene specificato altro su tale missiva). In esso si legge: “ Tutto nella mia anima è caos, ferita e turbamento. Non voglio nulla, mi sono rannicchiata in un piccolo pezzetto per non vedere nessuno e affinché mi lascino in pace con il mio disgraziato destino”.
In un altro punto della medesima lettera si legge: “sembra che abbia preso ad odiare anche Gabarevo e questa casa, in cui non riesco a rimanere. Solo quando si fa sera corro ovunque vedono gli occhi.”

             Ancora, D. Ĭotova riporta che poco dopo la pubblicazione dell’articolo di Njagolov un’equipe del giornale della capitale “Trud” (lett. “ Lavoro”) visitò Gabarevo e raccolse dagli abitanti del luogo informazioni in riferimento agli strani venuti nel villaggio.
Nel corso di tali incontri con la popolazione del luogo e sulla base dei racconti raccolti  è stato possibile precisare l’anno in cui i tre emigranti russi giunsero a Gabarevo. 
Inizialmente vennero il dottor Aleksiev e la signora Eleonora. Insieme ad essi viene menzionato anche il sottoposto Mitrofan. Successivamente giunse un giovane uomo, noto con il nome di Georghij (George) Pavlovich Zhudin. Tale, per esempio, è la testimonianza della signora Ruska Todorova Petrova (nata nel 1921): al momento dell’arrivo dei personaggi russi in questione, la signora aveva appena 9 mesi (il fatto le sarebbe  stato raccontato dalla madre). L’anno preciso sarebbe il 1922, dopo la sagra  del “Rozhen” sui Rodopi che si festeggia ogni anno il 28 agosto, per la Santa Vergine.

Anche la signora Ruska Todorova Petrova ricorda, come altri, che lo sfogo della signora Nora fosse rappresentato dai bambini, dai libri e dai cani, che la sua casa fosse sempre aperta ai bambini, ai quali impartiva lezioni gratuite di lingue straniere, storia, geografia e matematica.

Tutte le persone intervistate sull’argomento hanno confermato che la signora Nora fosse dedita alla lettura e assidua frequentatrice delle biblioteche di Gabarevo, di Kazanlăk (mentre leggeva fumava e talvolta nei libri sono rimasti buchi causati dalla caduta della cenere sulla pagina) e della biblioteca della Casa degli invalidi di guerra, a Shipka.

Anche in questo caso, le persone intervistate hanno ribadito che circolasse nel paese l leggenda che la signore Nora fosse figlia di un re e che, talvolta, lei raccontasse delle agiatezze a cui in passato era stata abituata. In qualche occasione avrebbe rivelato di essere figlia di un conte. Lo stesso dottor Aleksiev riferiva di essere molto grato al padre di Nora, perché grazie a lui aveva potuto frequentare la facoltà di medicina. Il medico raccontava, inoltre, di avere in Russia un fratello illegittimo, che gli somigliava molto.

Tutti, compreso il sacerdote Njagolov  (oggi 82enne) che era vicino al dottore, erano del parere che il matrimonio fosse finto, solo per non dare nell’occhio in una società patriarcale come quella della Bulgaria dell’inizio del XX secolo. Nora e il dottore dormivano in stanze separate e sebbene Nora si preoccupasse di preparare i pranzi  e le cene e provvedesse ai vestiti del dottore, si comportava come padrona. Lo chiamava “Petrushka”.

Maria Ivanova Barakova (un’abitante di Gabarevo, nata nel 1912), per esempio, racconta che i suoi genitori vivevano insieme ai suoi nonni  Anghel Burmov e Ruska in diversi appartamenti di uno stesso palazzo. La casa dei nonni si componeva di due stanze e due ripostigli. Quando aveva 10 anni, dopo che i genitori tornarono dalla festa di Rozhen, notò che presso il nonno era arrivato un russo. L’ospite dormì in una delle stanze della casa dei nonni. Si trattava, come le dissero, di un medico (il dottor Aleksiev). Mesi dopo arrivò anche una donna (Nora), anch’essa di origine russa. Elegante e ben vestita, fumava e aveva con sé quadri. Condivideva la stanza con il medico, pur non vivendo – apparentemente – come coppia. Alcuni mesi dopo (sebbene la signora Bakarova non possa precisare precisamente dopo quanto) presso Nora e il dottore arrivò un terzo russo, detto Mitrofan. La signora Ivanova Bakarova ricorda che Mitrofan le dava caramelle e le raccontava di avere una figlia anche lui. Il suo compito era quello di cucinare per gli altri due ospiti russi. Trascorso un  altro periodo di tempo, i tre si trasferirono in un’altra abitazione – la casa libera degli Shinevi. Si trattava di una famiglia che viveva a Kazanlăk e che si occupava del commercio dell’olio di rose.

Vicina dei russi era Anka Vălcheva. Accanto alla casa della famiglia degli Shinevi si trovava la scuola frequentata dalla signora Barahova che continuò, così, a vedere i tre signori stranieri. Dopo un certo periodo di tempo Mitrofan scomparve.
Gli Shinevi vendettero la loro casa, cosicchè Nora e il dottore si trasferirono nella casa di Filip Bojadzhiev. Qui, una sera, il sacerdote Nicola, li sposò. Poco dopo  Nora e il dottore lasciarono la casa di Filip Bojadzhiev e si trasferirono in quella degli Yrumovi. Allora presso di loro arrivò George ( si tratterebbe, quindi, dell’autunno 1924, due anni dopo Nora e il dottore). Si trattava di un ragazzo alto e magro. Molto giallo, come vetro. Era malato di tubercolosi (almeno questa era la versione ufficiale). Particolare impressione suscitava in Maria Barakova l’affetto di Nora nei confronti di George.

Cose non dissimili ricorda, pure, il signor Marin Iliev (nato nel 1915 e figlio della signora  Anka Vălcheva, ricordata appena prima come vicina di casa di Nora e del dottore, durante il loro soggiorno presso la casa degli Shinevi): l’uomo - nel corso di una conversazione avuta nel 1995 con D. Ĭotova – ha riferito di ricordare di avere un giorno (all’età di 7 anni) notatol’arrivo nella casa vicina alla sua di tre persone (due uomini e una donna, tutti vestiti con cappotti militari) scaldarsi vicino ad un fuoco.  Oltre a Nora e al dottore si trattava di Mitrofan, a cui piaceva la vodka e che spesso si recava a bere una rakia con suo nonno, di ritorno dal lavoro.
I tre russi in questione arrivarono a Gabarevo  quando al potere si trovava  Alksandăr Stamboliĭski. A causa di un potente membro del partito agrario in Bulgaria, il dott. Hadzhiiliev del villaggiod i Viden, per ragioni partigiane trasferì il dottor Aleksiev nel villaggio di Tsar Asparuhovo (nel comune di Stamovo, nel terriotrio di Stara Zagora). Con lui si trasferirono anche Nora e Mitrofan. Ma dopo poco tempo, in seguito ad un consiglio comunale, politici locali votarono per il ritorno a Gabarevo del dottor Aleksiev (già prima di questa decisione, in paese, si raccolsero molte firme in favore del suo rientro in paese come medico condotto).

Tra il 1924 e il 1925, secondo il racconto del signor Iliev George sarebbe giunto a Gabarevo (nel 1925 la signora Natalija Danova – altra abitante di Gabarevo- racconta di essere stata tenuta a battesimo da George e da Nora).
Il signor Iliev ricorda che George fosse malato di tubercolosi e che però cucinasse e preparasse insalate per Nora e il dottore. Sebbene bambino il signor Iliev fu colpito dal fatto che a un malato di tubercolosi si permettesse di cucinare, sebbene con il rischio di trasmettere la malattia. George giocava con un piccolo cagnolino (nell’arco della loro vita a Gabarevo i russi ebbero solo due cani). Iliev avrebbe ascoltato suo nonno raccontare che George avesse un fratello (Kostantin) in Turchia, che al momento – data la situazione politica in Turchia – non poteva uscire dal paese per raggiungere la Bulgaria. Kostantin sarebbe arrivato a Gabarevo intorno al 1928. George muore nel 1930. Il cognome di George e di Kostantin sarebbe stato lo stesso (Zhudin). Dopo la morte di George Kostantin rimase ancora alcuni mesi a Gabarevo, per poi partire alla volta di Sofia, dove lavorò presso la delegazione francese.

Alla domanda rivolta al signor Iliev se all’epoca si parlasse del fatto che George ed Eleonora fossero fratello e sorella, il signor Iliev risponde che non se ne parlasse e che la cosa fosse assurda.

Il signor Iliev racconta, poi, che nel 1939 Nora e Kostantin parteciparono alle nozze della sorella del sign. Iliev, celebrate a Sofia (nel libro è riportata la foto che ritrae Kostantin e Nora alle nozze: vedi p. 101. Subito dopo il matrimonio, Kostantin avrebbe invitato a cena presso la delegazione francese Iliev e sua sorella. Da sua sorella seppe, poi, che Kostantin avesse sposato una giovane originaria di un villaggio nei dintorni di Sofia, e che in quello stesso villaggio visse fino alla morte.

Alla domanda se ricordasse dove Nora avesse una ferita, Iliev risponde sulla guancia e ritiene che fosse stata determinata da un proiettile.

Alla domanda se Nora parlasse mai del suo passato, Iliev risponde negativamente, ricordando soltanto di alcune affermazioni talvolta fatte dalla donna, a proposito del fatto che fosse solita in passato fare il bagno in una vasca d’oro e che avesse al suo servizio numerose cameriere.

Nell’atto di morte della signora Nora è scritto che i dati relativi alla defunta sarebbero stati forniti proprio dal signor Iliev. Lui risponde di non ricordare questo particolare. Quando l’autrice fa notare il fatto che accanto alla nazionalità di Nora , nell’atto, si registra una correzione (sopra all’aggettivo russa, cancellato, sarebbe stato scritto “polacca”), Iliev afferma di non avere  mai pensato che Nora fosse polacca e che tale idea fosse venuta ad alcune persone sulla base del fatto che Nora sembrasse non avere simpatia per i Russi. A Gabarevo c’erano emigrati russi ma lei non li frequentava. Frequentava e vedeva soltanto tre famiglie.


L’intervista fatta dall’autrice alla sorella del signor Iliev (Lalka Anghelova, nata nel 1919, incontrata nel settembre 1995) inizia con una domanda relativa a Kostantin (chi fosse). La signora Anghelova risponde di aver conosciuto da bambina Kostantin (il quale sarebbe venuto a Gabarevo per ricongiungersi al fratello George, avrebbe lavorato poi per l’ambasciata francese,  si sarebbe spostato a Sofia nel 1939 e avrebbe partecipato alle sue nozze insieme a Nora).
Alla domanda se George e Kostantin si somigliassero, L. Anghelova risponde di no (George  era più alto e magro, Kostantin più chiaro e più pieno).
Nora, invece,  avrebbe rivelato a sua madre e più tardi a lei di avere avuto una figlia, purtroppo morta, che avrebbe avuto l’età di Anghelova se fosse sopravvissuta.
L. Anghelova, in generale, descrive Nora come una donna alta, elegante, con un lungo collo. Per questo avrebbe indossato sempre dei foulards. Le mani erano sempre curate, i capelli rossi, la carnagione chiara. Anche Anghelova riferisce di una ferita sulla guancia e non sul collo (l’assenza di una cicatrice sul collo sarebbe secondo l’Anghelova provata dal fatto che nel corso di un breve soggiorno a Pavel Banija con Nora le due donne avrebbero dormito nella stessa stanza e che, dunque, l’Anghelova vide Nora svestita). Nora non raccontò mai di come si fosse procurata quella cicatrice sulla guancia, così come mai parlò della sua vita ( a parte aver menzionato una zia, rande fumatrice, che le avrebbe trasmesso il vizio del fumo e dell’uso dell’oppio).
Anghelova conferma le informazioni fornite dal fratello Iliev per quanto riguarda le date di arrivo dei tre russi (compreso Mitrofan). A proposito di George Anghelova ricorda che fosse malato di tubercolosi ma che il dottore diceva che non fosse contagioso. La donna afferma, inoltre, di sapere da loro che lasciata la Russia fossero stati per lungo tempo in Grecia, a Lemnos. Lì avrebbero venduto ogni gioiello per acquistare del pane. A Gabarevo sarebbero giunti senza più nulla. Nora non avrebbe mai raccontato nulla del suo primo matrimonio: parlava invece della bambina avuta, che – se viva avrebbe avuto la stessa età dell’Anghelova.
Alla domanda se Nora e George si somigliassero Anghelova risponde di no e afferma che non fosse possibile che fossero fratelli. La donna racconta, inoltre, di ricordare di un viaggio fatto da Nora in Germania nel 1936, dove rimase per un anno (ospite di una coppia conosciuta a Gabarevo: lui commerciante, lei tedesca).
Nora non parlava mai della sua famiglia di origine: le uniche informazioni date riguardavano il fatto che la famiglia fosse molto ricca e che disponesse di servitù.
Anghelova ricorda che la coppia Nora e il dottore, dopo aver abitato la casa degli Urumovi si trasferì presso l’ambulatorio medico. Esso era vicino al cimitero e spesso lei e Nora si recavano al cimitero presso la tomba di George.

L Anghelova descrive il luogo in cui si trovano le sepolture di Nora e di George presso il cimitero di Gabarevo. Afferma che dal pino fino alle loro tombe non ci fossero altre sepolture. Sotto di loro si trovava la sepoltura di un tedesco prescipitato, in seguito al crollo del ponte sul fiume Tundzha nel momento in cui lo attraversava. Sulla strada non ci sono altre sepolture. Dopo la strada  si trovavano le sepolture di Nora e George. Il pino è in corrispondenza della testa di George, mentre la tomba di Nora è a nord del pino. Non c’erano segnacoli se non una croce di legno ad indicare le sepolture e una sorta di scaffale per la deposizione di candele.

Due anni dopo l’incontro e l’intervista a Marin Iliev (morto nel 1997)  e a sua sorella Lalka, D. Ĭotova  ha cercato a Kazanlăk la figlia di Marin, la signora Mariana Ilieva. La donna ha mostrato all’autrice un album di famiglia nel quale si trova una foto in cui compaiono Nora, George e il dottor Aleksiev, davanti al Tempio- Monumento di Shipka (la foto è riportata nel libro, a pag. 104 ). La lunga frangetta che caratterizza la pettinatura di Nora nella foto viene dall’autrice messa in relazione con il fatto che nelle foto della famiglia Romanov  delle 4 sorelle figlie di Nicola II la sola Anastasia è pettinata con la frangetta. Nel retro della foto Nora aveva riportato i nomi di tutte le persone che figuravano nella fotografia:
  1. Dott. P. A. Aleksiev
  2. Por. S. N. Abramov
  3. Mr Hika Pavlov
  4. M.me H.A. Aleksieva (si tratta di Nora. L’autrice del libro è tentata di sciogliere le sigle nel modo seguente: N (ikolaevna); A (nastasia); Aleksieva. Considerando, invece, la versione, secondo la quale Nora sarebbe figlia di un conte, il suo nome sarebbe dovuto essere Albert Krjugher (il nome ufficiale di Nora a Gabarevo, come appare dai registri), vissuto a Pietroburgo. Tale nome non compare negli 82 volumi dell’enciclopedia russa stampata a Pietroburgo dal 1890 al 1904. Il nome Albert è, invece, a detta dell’autrice, collegato con  il principe Albert (1819-1861) della dinastia Sassonia- Coburgo. Nel 1840 egli diventa marito della regina inglese Vittoria, la quale è bisnonna della principessa Anastasia. L’autrice del libro si chiede se questa coincidenza non vada interpretata come la volontà di Nora /Anastasia di scegliere per il suo nome fittizio quello del suo bisnonno. Dalla bisnonna Vittoria viene peraltro l’emofilia, trasmessa agli eredi tramite le madri ai figli maschi. E’ noto storicamente che il principe Alekseĭ (George?) fosse malato di emofilia. Se il George di Gabarevo fosse effettivamente Alekseĭ bisognerebbe ritenere che la malattia di cui fosse affetto non fosse la tubercolosi ma piuttosto l’emofilia (ciò spiegherebbe perché – sebbene malato – cucinasse insalate, con il rischio di trasmettere la malattia.
  5. Mr. K. P. Zhilo (si tratta di Kostantin Zhudin, qui riportato con il cognome Zhilo). Nella foto è il quinto da sinistra a destra)
  6. M.me O. H. Pavlova, urzh. Pushkina
  7. Mr. G. P. Zhilin (Si tratta di George  Zhudin, che Nora qui riporta come Zhilin. Nel registro di defunti di Gabarevo del 1930 è scritto: Georghi Pavlovich; atto 17, 28 dicembre 1930, nato a Ekaterinodar, 30 anni, di nazionalità russa, morto di tubercolosi. Il defunto è figlio legittimo di  Pavel Stephanov, 68 anni, vivo e di Aleksandra Sergheevna, 60 anni, vivente)
  8. Polk. M.L. Revytskiĭ
  9. Hash ljubimjii pesy “Peks”

s. Shipka settembre 1928
(l’elenco è a p. 26; cfr. foto p. 105)


Capitolo II
Zamjatnik, il quale conduce i giovani principi in Bulgaria

            Il racconto della vicenda dei Romanovi fatto  dal dott. D. Hjagolov al giornale “Sedmichni vesti” di Kazanlăk venne pubblicato anche sulla stampa centrale. Alla fine di marzo, il giornale “Duma” (lett. “Parola) riporta sinteticamente la versione del dott. Njagolov. Subito dopo la pubblicazione del trafiletto, la redazione del giornale “Duma” riceve una lettera da parte del sign. Petăr Hristov Petrov da Kavarna (tale lettera fu pubblicata nel luglio 1995 sul giornale “Dnes” (lett. “Oggi”), stampato a Stara Zagora. In tale lettera l’autore racconta una storia interessante, avvenuta nel 1953. Allora l’autore della lettera, sedicenne, era studente presso il ginnasio di Kavarna era ricoverato nel reparto chirurgia  dell’ospedale egionale di Balchik (costa nord orientale della Bulgaria). Nella stanza d’ospedale si trovava anche un malato anziano – Zamjatnik - una guardia bianca russa che una sera – chiamando a sé il giovane Petrov – gli avrebbe raccontato una storia, rivelando che quella fosse la prima volta che svelava questo segreto a qualcuno, convinto che non sarebbe uscito vivo dall’ospedale. Impiegato nello squadrone della cavalleria addetta alla sicurezza della famiglia dello zar, fu convocato nel 1918 dallo zar e fu incaricato di fuggire con due dei figli dello zar. Travestiti  (con Zamjatnik si trovava anche la sorella minore ma indossando gilet e cinture sul corpo nudo in cui si nascondevano soldi e oro salirono sull’ultimo bastimento disponibile e giunsero ad Odessa (tranne la sorella di Zamjatnik che scese a Belgrado). Tempo dopo, nel tentativo di raggiungere in Serbia la sorella di Zamjatnik, lui e i principi  transitarono in Bulgaria, non riuscendo a varcare la frontiera con la Serbia, rimangono in Bulgaria. A Sofia, dove Zamjatnik cerca aiuto medico per il principe, incontra un medico che gli propone di andare con lui a Kazanlăk.
Tempo dopo, Zamjatnik sarebbe partito per Belgrado per visitare la sorella. Di ritorno in Bulgaria, verrà informato della morte del principe (George muore nel 1930).



p. 69 ss.
Cap. VII
La messa in luce delle tombe a Gabarevo

L’idea di ritrovare le sepolture di George e Nora a Gabarevo e di riesumarne i corpi per realizzare sui resti analisi che possano, in qualche modo provare la loro possibile identificazione con i figli dello zar di Russia Aleksei e Anastasia, suggerita dall’autrice del libro, viene accolta da un gruppo di studiosi che si rendono disponibili a partecipare all’operazione. Si tratta del prof. Hristo Chuchkov anatomo patologo, all’epoca rettore del VMI di Stara Zagora (ora facoltà dell’università tracia), il prof. Ĭordan Ĭordanov, direttore dell’Istituto di morfologia sperimentale  e antropologia presso l’Accademia delle Scienze di Sofia e la docente Maria Grozeva, responsabile della cattedra di Medicina legale e deontologia presso il VMI di Stara Zagora. Come detto George e Nora sono stati seppelliti in due diverse sepolture uno accanto all’altro, nel vecchio cimitero di Gabarevo, trasformato in parco nel 1956.


pp. 161 – 164. Il ritrovamento (già tentato, invano, nel luglio 1995 dalla menzionata equipe di specialisti) avvenne il 14 settembre 1996 ad opera del signor Blagoi Emanuilov e altre tre persone (la tomba di Nora; al polso rinvenuto un bottone con il motto tedesco Waldes Triumf, in riferimento ai giochi olimpici del 1936 e in ricordo del viaggio da Nora compiuto proprio in quell’anno, in Germania) e il 15 settembre (tomba di George). Ovviamente sarebbe auspicabile potere effettuare analisi di laboratorio e del DNA sui resti. Blagoi Emanuilov che ha rinvenuto i resti ha inviato due richieste di preventivo (in America e a Londra). L’America non ha risposto; Londra ha chiesto una cifra troppo alta ( 40000 leva = 20000 euro). In Bulgaria esistono istituzioni in grado di svolgere le analisi ma esistono problemi burocratici per il loro svolgimento, legati al fatto che si tratta di organismi statali. Blagoi Emanuilov non ha dato allo studioso Jordanov sufficiente quantitativo di ossa per poter effettuare analisi e studi di tipo antropologico sui resti (importante per lo studioso sarebbe poter analizzare le ossa lunghe, su cui sono più evidenti le tracce eventuali dell’emofilia).

In generale, secondo la ricostruzione dei fatti proposta dall’autrice, la fuga dei due membri della famiglia Romanov (Anastasia e Aleksei) sarebbe avvenuta durante la permanenza della famiglia reale a Tobolsk, dove giunse il 31 luglio 1917. Tre sosia (di Aleksei, di Anastasia e della loro cameriera Anna Stepanovna (Stefanovna) Demidova) presero il posto dei due principi e della vera cameriera (pp. 110-128).


P. 144 ss.

In una breve nota apparsa il 1.09. 1995 sul giornale bulgaro “24 chasa” (24 ore) si legge “il DNA dimostra che si tratta delle ossa dello zar Nicola II”. Nel testo si legge: “ le ossa rinvenute nel 1991 ad Ekaterimburg nella fossa comune appartengono effettivamente all’ultimo zar russo Nicola II, secondo l’equipe americano –russa. Lo dimostrano i test condotti nel corso di 3 mesi. Se la Russia accettasse l’expertise i resti potrebbero trovare degna sepoltura. Mancano i resti della principessa Anastasia. L’equipe britannica che aveva svolto gli esami sui resti nel 1993, ritiene che i suoi resti non fossero tra quelli rinvenuti nella fossa.

Il 31 luglio 1995 l’Interfaks di Mosca affermava: le ossa riesumate confermano che si tratti della famiglia imperiale. Si tratta dello zar, della zarina e delle loro figlie (Olga, Tatiana, e Anastasia). Gli altri resti appartengono alle persone del seguito, al medico di famiglia e alla cuoca, al lacchè e alla cameriera. Mancano le ossa del figlio Aleksei e della figlia Maria., i cui corpi, secondo molti sarebbero stati bruciati, dopo lo sterminio della famiglia….pp. 144-160.
          




LA VERITA’ DI ALI AGCA e le altre verità sull’attentato al Papa

                                                           
Edizioni Mak, Sofia 2008

Anna Maria Turi

                   LA VERITA’ DI ALI AGCA

                       e  le altre verità sull’attentato al Papa

 
Indice

INTRODUZIONE………………………………..………….p.3

 PREMESSA: Il fatto……………………………….……… p.10

PRIMA PARTE: Nel Segno del Destino ………………………….p.12

1. Povertà  e disgrazie………………………………………………..p.13

2. La politica, la guerra civile, il reclutamento……………………….p.20

           SECONDA PARTE : L’idea dell’attentato…………………...p. 34

1. La sfida……………………………………………………………..p.35

2. Oriente e ritorno…………………………………………………….p.41

3. Un mistero chiamato Sofia………………………………………….p.49

 TERZA PARTE : Il Dramma fra i drammi del secolo………………..p.59

1. Occidente…………………………………………………………....p.60

2.Dialogo a distanza fra il Papa e il killer ……………………………..p.69

3. Cavalieri dell’Apocalisse…………………………………………….p.72

4. Sì, sì Vaticano!.....................................................................................p.90

5. 13 maggio 1981………………………………………………………p.95

QUARTA PARTE: Dopo l’attentato …………………………………..p.103

1. I Servizi Segreti sono di scena……………………………………….p.104

2. Un mistero nel mistero: il “caso Orlandi”……………………………p.112

3. La visita del Papa…………………………………………………….p. 114

QUINTA PARTE: Dietro l‘attentato……………………………………p.119

1. La “pista bulgara”…………………………………………………….p.120

2. I ”Misteriosi” di Ali Agca…………………………………………….p. 127

 

CONCLUSIONE…………………………………………………………p. 130

I “Misteriosi” di Ali Agca  hanno un nome ……..……………………….p. 131

APPENDICE

BIBLIOGRAFIA

                                               INTRODUZIONE

                                                                             Casa Circondariale di Ancona
                                                                                         19-08-1997

        Cara Anna,

(...) Io sarò contento ad incontrarti appena ci sarà possibile. (…)Cara Anna,da tempo che non scrivo più al papa pensando che i miei messaggi non arrivano a Lui, perciò ti sarò riconoscente se puoi comunicare ai giornalisti vaticanisti che io ho un grande desiderio di avere un nuovo colloquio con il papa, prima di finire in  carcere turco. Vorrei avere un incontro di 15-20 minuti riservato ovunque a Roma, Anna, parla con giornalisti ed altri che il papa mi accolga così che io posso liberare la mia coscienza *...Dopodiché io posso ritornare in Turchia in pace con coscienza libera seppure in galera. Cara Anna, questo mio messaggio fallo arrivare al papa in persona (...)

                                                  Mehmet Ali Agca

 
                                              31 Agosto 1997

    Cara Anna,

(…) urgentemente io vorrei avere un nuovo colloquio Finale con il Papa in modo riservato, vorrei abbracciare il papa in modo che per il resto della mia vita io possa avere una coscienza serena*  (…)

                                                    Mehmet Ali Agca

* Le frasi sono state evidenziate da noi.


    La presente opera nasce dagli incontri svoltisi nel 1996 tra Mehmet Ali Agca, che il 13 maggio 1981 aveva attentato alla vita di Giovanni Paolo II,  e me, incontri avvenuti nel supercarcere di Montacuto nei pressi della città marchigiana di Ancona, in Italia. Da tali eccezionali occasioni scaturì il  testo: Ali Agca, La mia verità, a cura di Anna Maria Turi (ed. Newton Compton, Roma 1996).

Questo secondo libro si avvale del primo,  di numerose  altre pagine, ciascuna a firma di Mehmet Ali Agca, in mio possesso e mai pubblicate,  di una settantina tra lettere e telegrammi, di conversazioni intrattenute in carcere e della lunga intervista filmata realizzata il Venerdì Santo precedente la Pasqua del 1996. Un’intervista in un certo senso emblematica per la  ricorrenza in cui è stata fatta. Emblematica per una storia scolpita nel mistero degli eventi terreni e di quelli trascendentali. E quest’ultima costituisce l’ordito principale del libro odierno.

Considerati anche i successivi approfondimenti da me compiuti sull’argomento dell’attentato a Giovanni Paolo II grazie a nuove indagini, al reperimento di nuovi documenti e a interviste a vari personaggi, il presente volume, che utilizza tutto ciò, è quindi un testo nuovo rispetto al primo, non solo  per una parte dei contenuti, ma altresì per struttura, che è composita essendo unitamente quella propria dell’intervista e quella del saggio. Quanto alle dichiarazioni di Agca, visto che larghe parti vengono citate testualmente dall’opera del 1996,  si fa presente che di quell’opera la sottoscritta è stata la curatrice e quindi l’autrice della forma italiana.

I contatti con l’attentatore erano iniziati già nel 1995 per via epistolare. Prima degli incontri, Ali Agca mi aveva fatto  pervenire tramite il suo legale Marina Magistrelli un centinaio di pagine con le quali non era riuscito a trovare un editore. Invitata ad occuparmi delle sue memorie, avevo chiesto e ottenuto il permesso delle visite in carcere agli organi competenti, il Ministero di Grazia e Giustizia e il titolare della terza inchiesta sull’attentato, il giudice Rosario Priore.

Un ritratto di Mehmet Ali Agca

In un fredda giornata di febbraio del 1996 varcai per la prima volta la soglia del supercarcere di Montacuto. Le norme di sicurezza comportavano il deposito in cassetta anche del registratore. Andai dal detenuto munita solo di carta e penna.

Lui entrò nella grigia sala adibita ai colloqui con indosso un golf celeste. Lo avrei sempre visto nello stesso  golf celeste. Ma sempre pulito e ordinato.

Non ci furono molti preamboli fra il recluso e me nel nudo parlatorio del carcere, situato in un padiglione a parte, ugualmente munito di sbarre: eravamo noi, solo noi, due storie differenti; due menti diversamente orientate ed educate; “inferno” e “paradiso”; ma anche due esseri umani che in quella sorta di ‘vuoto siderale’  ricevevano il miracolo dell’incontro e del dialogo, e della stretta di mano.

Nell’osservarlo da vicino, lo trovai diverso dalle immagini diffuse dalla stampa e dalla televisione. E’ più alto di quanto non sembri. In fotografia la testa pare tenuta troppo alta e rigida, il  volto sembra angoloso e tirato, gli occhi fondi e inquieti. Ma, vi assicuro, la giovane pantera consegnataci dai media ha contorni ed espressioni meno aggressivi.

L’incanutimento, che ha colto di sorpresa un uomo ancor giovane, si adagia come la polvere del tempo su un’incisione: essa fa  sparire gli angoli vivi, così come fa scomparire ogni gesto scomposto, esagitato. Emerge, nel contatto ravvicinato, dagli atteggiamenti e dall’espressione una nota riflessiva e pacata dell’animo.

Anche nel parlare Ali Agca risulta attento alle parole, con un tono di voce basso, non perché non subisca le pressioni del nervosismo e dell’impazienza, propri del suo carattere, ma perché, malgrado tutto,  è riuscito a compiere un certo lavoro su se stesso.

In altri momenti si scopre un “altro” e insospettato Agca, cioè un uomo che non ha vergogna di ammettere la propria fragilità. L’uomo assalito, nei momenti critici, dal dubbio e dalla paura. L’uomo che è più succubo che dominatore. E comunque che non si propone in ogni circostanza  in maniera arrogante e irragionevole, ma anche timida e consapevole di sbagliare. Ho constatato a volte l’alternanza di superbia e di modestia, di ribellione e di accettazione, di autoritarismo e di passività man mano che entravamo nella fase “calda” del lavoro. Ma le impuntature, delle quali spesso Ali si compiace, se non sono assecondate vengono abbandonate dopo una fase di ripensamento, senza difficoltà.

Nell’ambiente carcerario Agca aveva dunque un comportamento più stabile. Egli teneva a freno i suoi scatti, rifletteva più che insorgere. Insomma, non creava problemi. I componenti la Direzione del carcere ebbero a dirmi che se tutti i detenuti fossero stati come lui, avrebbero potuto concedersi di lasciare l’istituto di pena e andarsene al mare.

 Nella vita della prigione appariva addirittura modesto, parco, attento a non spendere.

Agca è un solitario. Nel carcere di Montacuto socializzava solo praticando il giuoco del calcio, che rappresentava anche l’unico suo svago.

“Fedeli” suoi compagni di solitudine, la televisione e i giornali, dei quali aveva imparato fin troppo bene la lezione. Senza contatti col mondo esterno, gli restava la comunicazione mediatica della quale si avvertiva l‘eco nella sua maniera di raccontare:  slogans, altre tipologie espressive a forte impatto comunicativo. In breve, egli era  diventato in carcere, con gli anni, un “lupo” della comunicazione.

La televisione soprattutto esercita su Agca un fascino particolare. Perché il video è la vita che egli non vive; è un immaginario che per lui è  la solo praticabile realtà.

Se ci è concesso dirlo, le telecamere poi lo fanno “impazzire”. Esse soddisfano il suo forte narcisismo. Perché Ali ha un culto quasi idolatrico della propria immagine. Quando, negli anni passati in Italia, veniva  ripreso, voleva che nel campo dell’obiettivo non vi fosse altra figura che la sua: tutto e tutti potevano fargli ombra. Quando entrai in carcere con un fotografo, egli senza farsi pregare  si mise in posa e si fece fare una decina di scatti. Ma rifiutò categoricamente di farsi ritrarre con me, quasi che la sua immagine potesse risultare diminuita dall’accostamento alla mia immagine.

La  famiglia

Avendo conosciuto parte della famiglia di Ali Agca, sua madre Muzeyyen e suo fratello Adnan, ho avuto modo di notare una certa somiglianza fisica con la prima più che con il secondo. Adnan, sposato e, all’epoca, padre di tre bambini (non so se in seguito ne siano nati altri), è di complessione robusta e ha un volto aperto, pronto al sorriso. Muzeyyen, alta e magra, quasi scarnificata, era il ritratto di una donna antica con quella sua espressione sofferta e fiera; un’icona anatolica, anche se tra le labbra teneva infilata una sigaretta puntualmente accesa  dopo aver provato un’emozione, sopportato una fatica o, più semplicemente, dopo aver consumato una cena.

Ma questa fumatrice che avrebbe dovuto avere qualche riserva nei confronti di un’italiana, di una cattolica  ferita nella sua fede, era  anche una donna affettuosa, che si accomiatava con un abbraccio e un bacio, mentre Ali, in genere, pareva non provare il palpito di un’emozione – a parte la sua suscettibilità in caso di attacco al suo ego – così com’era insensibile al caldo e al freddo, ingabbiato nel suo maglione azzurro, buono per tutte le stagioni.

Ali non mi ha mai chiesto un favore, se si eccettua quello di fare in modo che sua madre fosse per la terza volta ricevuta dal Santo Padre. E ricordo che fui io a stilare la lettera per papa Wojtyla, lettera  che Muzeyyen firmò con una croce. Poi presi la lettera e la portai a chi di dovere. Il Santo Padre ricevette la madre di Ali Agca. 

In un’altra occasione, Ali mi chiese che fosse ricevuto suo fratello Adnan. Mi detti da fare, ma Adnan anticipò la partenza da Roma e l’udienza privata non ci fu.

Il metodo di lavoro

Ci mettemmo subito al lavoro, rimanendo in piedi tutto il tempo, divisi da un muretto sul quale poggiavamo i nostri fogli. Al di qua del divisorio, nella zona dove mi trovavo io, c’era una sedia, ma non me ne servii mai, né la prima volta, nè le volte successive.

E’ indubbio che in quel periodo, prima cioè del suo trasferimento nelle carceri turche, Ali attraversava  una fase di relativo benessere psicofisico. Soffriva, è vero, per la  detenzione di anni, molti dei quali passati in isolamento, ma guardava al futuro con sufficiente speranza. Aveva fiducia in un cambiamento, in un’evoluzione positiva della sua situazione, nella concessione di benefici da parte dell’autorità di giustizia dopo aver maturato il tempo minimo di carcerazione previsto dalla legge. La speranza era anche quella di scontare il resto della pena nel suo Paese, la Turchia.

I nostri incontri nel carcere furono numerosi, frequenti, a volte con cadenza  settimanale.

Già al colloquio d’esordio Ali era venuto recando in mano un nutrito fascio di fogli. Era il frutto delle indicazioni che gli avevo dato per lettera. Non lessi all’istante il materiale, poiché avevamo deciso che i nostri colloqui sarebbero stati dedicati alla discussione dei temi e dei problemi generali, alle questioni di metodo, all’identificazione dei contenuti, alla scelta di eventuali commenti. Lui, al di fuori del colloquio, avrebbe dovuto scrivere di getto in risposta alle mie domande, senza preoccuparsi né degli aspetti formali né d’altro: io avrei esaminato  la materia prodotta ‘a caldo’, l’avrei organizzata ed effettuato gli interventi linguistici e formali calandola nell’impianto narrativo prescelto.

Decidemmo fin dalla prima volta che il colloquio sarebbe durato un’ora e non di più, per non rischiare di esaurire la riserva di ore di visita a sua disposizione. In verità, lui riceveva sono una volta all’anno suo fratello Adnan e, più raramente, sua madre Muzeyyen. Peccammo forse di eccesso di prudenza, ma non potevamo rischiare di rimanere con l’ultima questione in sospeso.

Per quanto riguarda i problemi inerenti all’impiego della lingua italiana da parte di Ali Agca, va detto che questi conosce il nostro idioma abbastanza bene pur avendolo appreso sostanzialmente in carcere e praticamente da autodidatta. Egli dunque lo possiede a sufficienza, non tanto e non solo per farsi appena capire,  quanto  addirittura per esprimere il suo pensiero con chiarezza. Certo, la grammatica fa difetto, il lessico non è così ricco,  ma non può non sorprendere la sua capacità di assimilazione di una lingua tanto diversa dalla sua. Quando scrive sorprende al contrario la curiosa carenza che concerne la punteggiatura: egli infatti ricorre pochissimo ai segni d’interpunzione, quasi mai ai punti fermi, meno raramente alle virgole.

Sempre restando nell’ambito degli scritti – e mi riferisco anche alle numerose lettere inviatemi – un’altra caratteristica sorprendente è rappresentata dalla veste grafica. La scrittura a stampatello, regolare, ben proporzionata ricopre senza segni di cedimento l’intera pagina. I grandi fogli di un suo album che non vidi mai, ma di cui indovinai l’esistenza, vergati a mano con pazienza certosina, non presentano cancellature. Egli non ha mai mostrato quelli che in gergo sono chiamati “ripensamenti”. Eppure so da fonte sicura  che scrive e riscrive i suoi testi, alcuni dei quali finiscono nel cestino. Ma non me l‘ha voluto confessare mai. Così che ancor oggi non potrei dire se le sue pagine, così perfette, e con il carattere dell’immediatezza, siano il frutto di una scrittura di getto, ovvero il risultato di un incessante e instancabile lavoro di ricopiatura.

La dimestichezza che Agca comunque ha con la penna  e l’uso calligrafico, estetico che ne fa  non rappresentano solo l’evasione e la compensazione all’inazione e all’isolamento del carcere. Provengono sicuramente da una sua esigenza soggettiva, che collima con l’inappuntabile maniera di presentarsi agli incontri carcerari, là dove non si nota alcun segno di sciatteria e tanto meno di decadenza della persona.

Ali Agca ha inviato molte lettere dalle carceri italiane, a personalità di ogni genere, e soprattutto al  Papa. A Karol Wojtyla in seguito ha lanciato dei veri e propri   proclami  per consigliargli le dimissioni o per confermare che lui, Mehmet Ali Agca, era al centro del Terzo Segreto di Fatima[1]. 

Nelle lettere “di servizio” di cui sono stata il tramite, a direttori di giornali e a editori – il tono e il linguaggio, rispetto alle prime, cambiano. Sono lettere-comunicato come nate da una contrazione nervosa, da un atteggiamento rigido e intransigente. Il tono è imperativo, il lessico povero. Il pensiero è inchiodato a un gruzzolo di idee senza sviluppo. Tutto ricorda l’Agca duro e pretenzioso dei processi e di certe interviste come quella per il quindicesimo anniversario dell’attentato al Papa che ha fatto esclamare  a qualcuno: “Ali Agca non si è pentito”.

Ma per quanto ci riguarda, anche se le parole intercorse fra noi non dissero tutta la verità, è rimasta la cosa buona della buona volontà con cui furono pronunciate.




[1] Le Apparizioni della Madonna nel villaggio portoghese di Fatima e i messaggi da Lei indirizzati all’umanità costituiscono eventi di grande rilievo per i cattolici in quanto riconosciuti come soprannaturali dalla Chiesa. Stando al racconto di tre fanciulli, Lucia dos Santos di dieci anni, Francisco Marto, di nove, e Giacinta Marto, di sette,  le manifestazioni si ebbero a partire dal 13 maggio del 1917 e si ripeterono il 13 di ogni mese, salvo un ‘eccezione, fino all’ottobre successivo, quando davanti a una folla immensa si verificò lo straordinario fenomeno della “danza del sole”. Il lungo e articolato messaggio della Vergine ai pastorelli fu diviso in tre parti. La prima parte riguardava il futuro dei fanciulli. La seconda parte preannunciava la seconda guerra mondiale. La terza parte, conosciuta come Terzo Segreto di Fatima, è stata resa nota dalla Chiesa solo in occasione del Giubileo del Duemila.
Lucia, divenuta suora carmelitana,  cominciò a rivelare, mettendoli per iscritto, i primi due Segreti a partire dal 1942, su sollecitazione del suo Vescovo. La terza parte fu redatta nel 1944 e il testo giunse a Roma in plico sigillato nel 1957. La  veggente ne aveva raccomandato la divulgazione nel 1960, secondo il volere della Madonna, ma ciò non avvenne.