Edizioni Mak, Sofia 2008
Anna Maria Turi
e le altre verità sull’attentato
al Papa
Indice
INTRODUZIONE………………………………..………….p.3
PREMESSA: Il
fatto……………………………….……… p.10
PRIMA PARTE: Nel Segno del Destino ………………………….p.12
1. Povertà e disgrazie………………………………………………..p.13
2. La politica,
la guerra civile, il reclutamento……………………….p.20
SECONDA PARTE : L’idea
dell’attentato…………………...p. 34
1. La
sfida……………………………………………………………..p.35
2. Oriente e
ritorno…………………………………………………….p.41
3. Un mistero
chiamato Sofia………………………………………….p.49
TERZA PARTE : Il Dramma fra i drammi del
secolo………………..p.59
1.
Occidente…………………………………………………………....p.60
2.Dialogo a distanza fra il Papa e il
killer ……………………………..p.69
3. Cavalieri
dell’Apocalisse…………………………………………….p.72
4. Sì, sì
Vaticano!.....................................................................................p.90
5. 13 maggio
1981………………………………………………………p.95
QUARTA PARTE:
Dopo l’attentato …………………………………..p.103
1. I Servizi
Segreti sono di scena……………………………………….p.104
2. Un mistero
nel mistero: il “caso Orlandi”……………………………p.112
3. La visita del
Papa…………………………………………………….p. 114
QUINTA PARTE:
Dietro l‘attentato……………………………………p.119
1. La “pista
bulgara”…………………………………………………….p.120
2. I
”Misteriosi” di Ali Agca…………………………………………….p. 127
CONCLUSIONE…………………………………………………………p. 130
I “Misteriosi” di Ali Agca hanno
un nome ……..……………………….p. 131
APPENDICE
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Casa Circondariale di Ancona
19-08-1997
Cara Anna,
(...) Io
sarò contento ad incontrarti appena ci sarà possibile. (…)Cara Anna,da tempo
che non scrivo più al papa pensando che i miei messaggi non arrivano a Lui,
perciò ti sarò riconoscente se puoi comunicare ai giornalisti vaticanisti che
io ho un grande desiderio di avere un nuovo colloquio con il papa, prima di
finire in carcere turco. Vorrei avere un
incontro di 15-20 minuti riservato ovunque a Roma, Anna, parla con giornalisti
ed altri che il papa mi accolga così che io posso liberare la mia coscienza
*...Dopodiché io posso ritornare in Turchia in pace con coscienza libera
seppure in galera. Cara Anna, questo mio messaggio fallo arrivare al papa in
persona (...)
Mehmet Ali Agca
31 Agosto 1997
Cara Anna,
(…)
urgentemente io vorrei avere un nuovo colloquio Finale con il Papa in modo
riservato, vorrei abbracciare il papa in modo che per il resto della mia vita
io possa avere una coscienza serena* (…)
Mehmet Ali Agca
* Le
frasi sono state evidenziate da noi.
La presente opera nasce dagli incontri
svoltisi nel 1996 tra Mehmet Ali Agca, che il 13 maggio 1981 aveva attentato
alla vita di Giovanni Paolo II, e me,
incontri avvenuti nel supercarcere di Montacuto nei pressi della città
marchigiana di Ancona, in Italia. Da tali eccezionali occasioni scaturì il testo: Ali Agca, La mia verità, a cura di
Anna Maria Turi (ed. Newton Compton, Roma 1996).
Questo secondo libro si avvale del primo, di numerose
altre pagine, ciascuna a firma di Mehmet Ali Agca, in mio possesso e mai
pubblicate, di una settantina tra
lettere e telegrammi, di conversazioni intrattenute in carcere e della lunga
intervista filmata realizzata il Venerdì Santo precedente la Pasqua del 1996.
Un’intervista in un certo senso emblematica per la ricorrenza in cui è stata fatta. Emblematica
per una storia scolpita nel mistero degli eventi terreni e di quelli
trascendentali. E quest’ultima costituisce l’ordito principale del libro odierno.
Considerati anche i successivi approfondimenti da me compiuti
sull’argomento dell’attentato a Giovanni Paolo II grazie a nuove indagini, al
reperimento di nuovi documenti e a interviste a vari personaggi, il presente
volume, che utilizza tutto ciò, è quindi un testo nuovo rispetto al primo, non
solo per una parte dei contenuti, ma
altresì per struttura, che è composita essendo unitamente quella propria
dell’intervista e quella del saggio. Quanto alle dichiarazioni di Agca, visto
che larghe parti vengono citate testualmente dall’opera del 1996, si fa presente che di quell’opera la
sottoscritta è stata la curatrice e quindi l’autrice della forma italiana.
I contatti con l’attentatore erano iniziati già nel 1995 per
via epistolare. Prima degli incontri, Ali Agca mi aveva fatto pervenire tramite il suo legale Marina
Magistrelli un centinaio di pagine con le quali non era riuscito a trovare un
editore. Invitata ad occuparmi delle sue memorie, avevo chiesto e ottenuto il
permesso delle visite in carcere agli organi competenti, il Ministero di Grazia
e Giustizia e il titolare della terza inchiesta sull’attentato, il giudice
Rosario Priore.
Un ritratto di Mehmet
Ali Agca
In un fredda giornata di febbraio del 1996 varcai per la
prima volta la soglia del supercarcere di Montacuto. Le norme di sicurezza
comportavano il deposito in cassetta anche del registratore. Andai dal detenuto
munita solo di carta e penna.
Lui entrò nella grigia sala adibita ai colloqui con indosso
un golf celeste. Lo avrei sempre visto nello stesso golf celeste. Ma sempre pulito e ordinato.
Non ci furono molti preamboli fra il recluso e me nel nudo
parlatorio del carcere, situato in un padiglione a parte, ugualmente munito di
sbarre: eravamo noi, solo noi, due storie differenti; due menti diversamente
orientate ed educate; “inferno” e “paradiso”; ma anche due esseri umani che in
quella sorta di ‘vuoto siderale’
ricevevano il miracolo dell’incontro e del dialogo, e della stretta di
mano.
Nell’osservarlo da vicino, lo trovai diverso dalle immagini
diffuse dalla stampa e dalla televisione. E’ più alto di quanto non sembri. In
fotografia la testa pare tenuta troppo alta e rigida, il volto sembra angoloso e tirato, gli occhi
fondi e inquieti. Ma, vi assicuro, la giovane pantera consegnataci dai media ha
contorni ed espressioni meno aggressivi.
L’incanutimento, che ha colto di sorpresa un uomo ancor
giovane, si adagia come la polvere del tempo su un’incisione: essa fa sparire gli angoli vivi, così come fa
scomparire ogni gesto scomposto, esagitato. Emerge, nel contatto ravvicinato,
dagli atteggiamenti e dall’espressione una nota riflessiva e pacata dell’animo.
Anche nel parlare Ali Agca risulta attento alle parole, con
un tono di voce basso, non perché non subisca le pressioni del nervosismo e
dell’impazienza, propri del suo carattere, ma perché, malgrado tutto, è riuscito a compiere un certo lavoro su se
stesso.
In altri momenti si scopre un “altro” e insospettato Agca,
cioè un uomo che non ha vergogna di ammettere la propria fragilità. L’uomo
assalito, nei momenti critici, dal dubbio e dalla paura. L’uomo che è più
succubo che dominatore. E comunque che non si propone in ogni circostanza in maniera arrogante e irragionevole, ma
anche timida e consapevole di sbagliare. Ho constatato a volte l’alternanza di
superbia e di modestia, di ribellione e di accettazione, di autoritarismo e di
passività man mano che entravamo nella fase “calda” del lavoro. Ma le
impuntature, delle quali spesso Ali si compiace, se non sono assecondate
vengono abbandonate dopo una fase di ripensamento, senza difficoltà.
Nell’ambiente carcerario Agca aveva dunque un comportamento
più stabile. Egli teneva a freno i suoi scatti, rifletteva più che insorgere.
Insomma, non creava problemi. I componenti la Direzione del carcere
ebbero a dirmi che se tutti i detenuti fossero stati come lui, avrebbero potuto
concedersi di lasciare l’istituto di pena e andarsene al mare.
Nella vita della
prigione appariva addirittura modesto, parco, attento a non spendere.
Agca è un solitario. Nel carcere di Montacuto socializzava
solo praticando il giuoco del calcio, che rappresentava anche l’unico suo
svago.
“Fedeli” suoi compagni di solitudine, la televisione e i
giornali, dei quali aveva imparato fin troppo bene la lezione. Senza contatti
col mondo esterno, gli restava la comunicazione mediatica della quale si
avvertiva l‘eco nella sua maniera di raccontare: slogans, altre tipologie espressive a forte
impatto comunicativo. In breve, egli era
diventato in carcere, con gli anni, un “lupo” della comunicazione.
La televisione soprattutto esercita su Agca un fascino
particolare. Perché il video è la vita che egli non vive; è un immaginario che
per lui è la solo praticabile realtà.
Se ci è concesso dirlo, le telecamere poi lo fanno
“impazzire”. Esse soddisfano il suo forte narcisismo. Perché Ali ha un culto
quasi idolatrico della propria immagine. Quando, negli anni passati in Italia,
veniva ripreso, voleva che nel campo
dell’obiettivo non vi fosse altra figura che la sua: tutto e tutti potevano
fargli ombra. Quando entrai in carcere con un fotografo, egli senza farsi
pregare si mise in posa e si fece fare
una decina di scatti. Ma rifiutò categoricamente di farsi ritrarre con me,
quasi che la sua immagine potesse risultare diminuita dall’accostamento alla
mia immagine.
La famiglia
Avendo conosciuto parte della famiglia di Ali Agca, sua madre
Muzeyyen e suo fratello Adnan, ho avuto modo di notare una certa somiglianza
fisica con la prima più che con il secondo. Adnan, sposato e, all’epoca, padre
di tre bambini (non so se in seguito ne siano nati altri), è di complessione
robusta e ha un volto aperto, pronto al sorriso. Muzeyyen, alta e magra, quasi
scarnificata, era il ritratto di una donna antica con quella sua espressione
sofferta e fiera; un’icona anatolica, anche se tra le labbra teneva infilata una
sigaretta puntualmente accesa dopo aver
provato un’emozione, sopportato una fatica o, più semplicemente, dopo aver
consumato una cena.
Ma questa fumatrice che avrebbe dovuto avere qualche riserva
nei confronti di un’italiana, di una cattolica
ferita nella sua fede, era anche
una donna affettuosa, che si accomiatava con un abbraccio e un bacio, mentre
Ali, in genere, pareva non provare il palpito di un’emozione – a parte la sua
suscettibilità in caso di attacco al suo ego – così com’era insensibile al caldo
e al freddo, ingabbiato nel suo maglione azzurro, buono per tutte le stagioni.
Ali non mi ha mai chiesto un favore, se si eccettua quello di
fare in modo che sua madre fosse per la terza volta ricevuta dal Santo Padre. E
ricordo che fui io a stilare la lettera per papa Wojtyla, lettera che Muzeyyen firmò con una croce. Poi presi
la lettera e la portai a chi di dovere. Il Santo Padre ricevette la madre di
Ali Agca.
In un’altra occasione, Ali mi chiese che fosse ricevuto suo
fratello Adnan. Mi detti da fare, ma Adnan anticipò la partenza da Roma e
l’udienza privata non ci fu.
Il metodo di lavoro
Ci mettemmo subito al lavoro, rimanendo in piedi tutto il
tempo, divisi da un muretto sul quale poggiavamo i nostri fogli. Al di qua del
divisorio, nella zona dove mi trovavo io, c’era una sedia, ma non me ne servii
mai, né la prima volta, nè le volte successive.
E’ indubbio che in quel periodo, prima cioè del suo
trasferimento nelle carceri turche, Ali attraversava una fase di relativo benessere psicofisico.
Soffriva, è vero, per la detenzione di
anni, molti dei quali passati in isolamento, ma guardava al futuro con
sufficiente speranza. Aveva fiducia in un cambiamento, in un’evoluzione
positiva della sua situazione, nella concessione di benefici da parte dell’autorità
di giustizia dopo aver maturato il tempo minimo di carcerazione previsto dalla
legge. La speranza era anche quella di scontare il resto della pena nel suo
Paese, la Turchia.
I nostri incontri nel carcere furono numerosi, frequenti, a
volte con cadenza settimanale.
Già al colloquio d’esordio Ali era venuto recando in mano un
nutrito fascio di fogli. Era il frutto delle indicazioni che gli avevo dato per
lettera. Non lessi all’istante il materiale, poiché avevamo deciso che i nostri
colloqui sarebbero stati dedicati alla discussione dei temi e dei problemi
generali, alle questioni di metodo, all’identificazione dei contenuti, alla
scelta di eventuali commenti. Lui, al di fuori del colloquio, avrebbe dovuto
scrivere di getto in risposta alle mie domande, senza preoccuparsi né degli
aspetti formali né d’altro: io avrei esaminato
la materia prodotta ‘a caldo’, l’avrei organizzata ed effettuato gli
interventi linguistici e formali calandola nell’impianto narrativo prescelto.
Decidemmo fin dalla prima volta che il colloquio sarebbe
durato un’ora e non di più, per non rischiare di esaurire la riserva di ore di
visita a sua disposizione. In verità, lui riceveva sono una volta all’anno suo
fratello Adnan e, più raramente, sua madre Muzeyyen. Peccammo forse di eccesso
di prudenza, ma non potevamo rischiare di rimanere con l’ultima questione in
sospeso.
Per quanto riguarda i problemi inerenti all’impiego della
lingua italiana da parte di Ali Agca, va detto che questi conosce il nostro
idioma abbastanza bene pur avendolo appreso sostanzialmente in carcere e
praticamente da autodidatta. Egli dunque lo possiede a sufficienza, non tanto e
non solo per farsi appena capire,
quanto addirittura per esprimere
il suo pensiero con chiarezza. Certo, la grammatica fa difetto, il lessico non
è così ricco, ma non può non sorprendere
la sua capacità di assimilazione di una lingua tanto diversa dalla sua. Quando
scrive sorprende al contrario la curiosa carenza che concerne la punteggiatura:
egli infatti ricorre pochissimo ai segni d’interpunzione, quasi mai ai punti
fermi, meno raramente alle virgole.
Sempre restando nell’ambito degli scritti – e mi riferisco
anche alle numerose lettere inviatemi – un’altra caratteristica sorprendente è
rappresentata dalla veste grafica. La scrittura a stampatello, regolare, ben
proporzionata ricopre senza segni di cedimento l’intera pagina. I grandi fogli
di un suo album che non vidi mai, ma di cui indovinai l’esistenza, vergati a
mano con pazienza certosina, non presentano cancellature. Egli non ha mai
mostrato quelli che in gergo sono chiamati “ripensamenti”. Eppure so da fonte
sicura che scrive e riscrive i suoi
testi, alcuni dei quali finiscono nel cestino. Ma non me l‘ha voluto confessare
mai. Così che ancor oggi non potrei dire se le sue pagine, così perfette, e con
il carattere dell’immediatezza, siano il frutto di una scrittura di getto,
ovvero il risultato di un incessante e instancabile lavoro di ricopiatura.
La dimestichezza che Agca comunque ha con la penna e l’uso calligrafico, estetico che ne fa non rappresentano solo l’evasione e la
compensazione all’inazione e all’isolamento del carcere. Provengono sicuramente
da una sua esigenza soggettiva, che collima con l’inappuntabile maniera di presentarsi
agli incontri carcerari, là dove non si nota alcun segno di sciatteria e tanto
meno di decadenza della persona.
Ali Agca ha inviato molte lettere dalle carceri italiane, a
personalità di ogni genere, e soprattutto al
Papa. A Karol Wojtyla in seguito ha lanciato dei veri e propri proclami
per consigliargli le dimissioni o per confermare che lui, Mehmet Ali
Agca, era al centro del Terzo Segreto di Fatima[1].
Nelle lettere “di servizio” di cui sono stata il tramite, a
direttori di giornali e a editori – il tono e il linguaggio, rispetto alle
prime, cambiano. Sono lettere-comunicato come nate da una contrazione nervosa,
da un atteggiamento rigido e intransigente. Il tono è imperativo, il lessico
povero. Il pensiero è inchiodato a un gruzzolo di idee senza sviluppo. Tutto
ricorda l’Agca duro e pretenzioso dei processi e di certe interviste come
quella per il quindicesimo anniversario dell’attentato al Papa che ha fatto
esclamare a qualcuno: “Ali Agca non si è
pentito”.
Ma per quanto ci riguarda, anche se le parole intercorse fra
noi non dissero tutta la verità, è rimasta la cosa buona della buona volontà
con cui furono pronunciate.
[1] Le Apparizioni della
Madonna nel villaggio portoghese di Fatima e i messaggi da Lei indirizzati
all’umanità costituiscono eventi di grande rilievo per i cattolici in quanto
riconosciuti come soprannaturali dalla Chiesa. Stando al racconto di tre
fanciulli, Lucia dos Santos di dieci anni, Francisco Marto, di nove, e Giacinta
Marto, di sette, le manifestazioni si
ebbero a partire dal 13 maggio del 1917 e si ripeterono il 13 di ogni mese,
salvo un ‘eccezione, fino all’ottobre successivo, quando davanti a una folla
immensa si verificò lo straordinario fenomeno della “danza del sole”. Il lungo
e articolato messaggio della Vergine ai pastorelli fu diviso in tre parti. La
prima parte riguardava il futuro dei fanciulli. La seconda parte preannunciava
la seconda guerra mondiale. La terza parte, conosciuta come Terzo Segreto di
Fatima, è stata resa nota dalla Chiesa solo in occasione del Giubileo del
Duemila.
Lucia, divenuta suora carmelitana, cominciò a rivelare, mettendoli per iscritto,
i primi due Segreti a partire dal 1942, su sollecitazione del suo Vescovo. La
terza parte fu redatta nel 1944 e il testo giunse a Roma in plico sigillato nel
1957. La veggente ne aveva raccomandato
la divulgazione nel 1960, secondo il volere della Madonna, ma ciò non avvenne.
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